IL FALSO AUTOSTOP
(da: M. Kundera, Amori ridicoli, Adelphi, Milano 1988)
1 La lancetta della benzina si abbassò all’improvviso verso lo zero e il giovane guidatore della spider dichiarò che faceva venir rabbia quanto beveva quella macchina. «L’importante è non rimanere senza benzina» dichiarò la ragazza (sulla ventina) e ricordò al guidatore i vari luoghi sulla mappa del paese dove era già capitata loro una cosa del genere. Il giovane rispose che lui non se ne preoccupava perché tutto ciò che gli accadeva in sua compagnia per lui aveva sempre il fascino dell’avventura. La ragazza era di parere opposto: tutte le volte che erano rimasti a secco in mezzo alla strada, l’avventura era sempre stata appannaggio solo suo, perché il giovane si nascondeva ed era lei a dover ricorrere al proprio fascino: doveva fermare una macchina, farsi portare alla pompa più vicina, fermare un’altra macchina e ritornare con la tanica. Il giovane chiese alla ragazza se i guidatori che le davano un passaggio erano davvero così antipatici, dato che parlava del proprio compito come di un’ingiustizia. Lei (con maldestra civetteria) rispose che talvolta erano molto simpatici, ma cosa ne ricavava lei, impedita dalla tanica e costretta a lasciarli prima di aver avuto il tempo di iniziare qualcosa. «Canaglia» disse il giovane. La ragazza ribatté che la canaglia era lui, invece; chissà quante ragazzine lo fermavano sulla strada quando viaggiava da solo! Il giovane afferrò la ragazza per la spalla e le diede un leggero bacio sulla fronte. Sapeva che lei lo amava ed era gelosa. La gelosia non è certo una qualità piacevole, ma se non se ne abusa (se è unita a una certa moderazione) ha in sé, a parte i suoi inconvenienti, anche qualcosa di commovente. Il giovane almeno la pensava così. Avendo solo ventotto anni, gli sembrava di essere vecchio e di conoscere tutto ciò che un uomo può conoscere delle donne. La cosa che più apprezzava nella ragazza che gli sedeva accanto era proprio ciò che nelle donne fino ad allora aveva conosciuto meno: la sua purezza. La lancetta era ormai sullo zero quando il giovane scorse sulla destra un cartello che segnalava (con la sagoma nera di una pompa di benzina) una stazione di servizio a cinquecento metri. La ragazza ebbe appena il tempo di dichiarare che le era caduto un peso dal cuore, che il giovane aveva già messo la freccia a sinistra ed entrava nello spiazzo davanti alle pompe. Fu costretto, però, a fermarsi di lato, perché accanto alla pompa c’era un grosso camion con un serbatoio di lamiera che con un robusto tubo riforniva di benzina la pompa. «Ce ne sarà da aspettare!» disse il giovane alla ragazza uscendo dall’auto. «Ne ha per molto?» gridò al ragazzo in tuta. «Un minuto» rispose il ragazzo, e il giovane: «Li conosco i vostri minuti». Voleva sedersi nuovamente in macchina, ma vide che la ragazza era uscita dall’altro lato. «Nel frattempo io ne approfitto» disse. «Per far cosa?» chiese apposta il giovane, volendo vedere l’imbarazzo della ragazza. Era già quasi un anno che si conoscevano, ma la ragazza riusciva ugualmente a vergognarsi ancora in sua presenza, e lui amava molto quei suoi attimi di pudore; sia perché ciò la distingueva dalle donne con le quali lui aveva avuto rapporti in precedenza, sia perché conosceva la legge della fugacità di tutte le cose, e ciò gli rendeva prezioso anche il pudore della sua ragazza.
La ragazza odiava dovergli chiedere, quando viaggiavano (il giovane aveva l’abitudine di guidare per ore senza fare una sosta), di fermarsi un attimo accanto a qualche boschetto. Si arrabbiava sempre quando lui, con studiato stupore, le chiedeva perché. La ragazza sapeva che il proprio pudore era ridicolo e superato. Al lavoro si era accorta varie volte che per quel suo imbarazzo la prendevano in giro, e la provocavano apposta. Ogni volta si vergognava in anticipo del fatto che si sarebbe vergognata. Spesso aveva desiderato di potersi sentire libera nel proprio corpo, spensierata e serena, come accadeva alla maggioranza delle donne che le stavano accanto. Aveva anche escogitato un originale sistema educativo di autopersuasione: si ripeteva che ogni essere umano riceve uno dei milioni di corpi già pronti, come se gli venisse assegnata una delle mille e mille stanze di un immenso albergo; e che quindi il corpo è fortuito e impersonale; niente più di un prodotto fatto in serie e dato in prestito. Se lo ripeteva in tutti i modi possibili, ma non era mai riuscita a sentirlo dentro di sé. Il dualismo di anima e corpo le era estraneo. Si riconosceva talmente in quel suo corpo da percepirlo sempre con ansietà. Con la stessa ansietà si era accostata anche al giovane, che aveva conosciuto un anno prima e con il quale si sentiva felice forse proprio perché lui non separava mai la sua anima dal suo corpo, e lei poteva vivere con lui nella propria interezza. In quella indivisibilità di anima e corpo c’era la felicità, solo che subito dietro la felicità sta in agguato il sospetto, e la ragazza ne era piena. Spesso, ad esempio, pensava che le altre donne (quelle serene) erano più attraenti e seducenti, e che il giovane, che non nascondeva di conoscere bene quel tipo di donne, un giorno o l’altro se ne sarebbe andato dietro una di loro. (È vero che il giovane dichiarava di essere stufo di donne simili, ma la ragazza sapeva che lui era molto più giovane di quanto non si credesse). Voleva che lui le appartenesse interamente e voleva appartenere interamente a lui, ma più si sforzava di dargli tutto, più le sembrava di negargli qualcosa: appunto ciò che viene dato da un amore superficiale e poco profondo, ciò che viene dato da un flirt. La tormentava l’idea di non saper possedere, accanto alla serietà, anche la frivolezza. Quel giorno, però, non si tormentava e non pensava a nulla di simile. Stava bene. Era il primo giorno delle loro vacanze (due settimane sulle quali per tutto l’anno lei aveva concentrato il proprio desiderio), il cielo era azzurro (quell’anno si era chiesta con terrore se il cielo sarebbe stato davvero azzurro) e lui era lì con lei. Al « per far cosa? » di lui si fece rossa e corse via senza dir nulla. Fece il giro della stazione di benzina, che era sul bordo della strada, completamente isolata e circondata dai campi; a un centinaio di metri (nella direzione del loro viaggio) iniziava un bosco. Si avviò da quella parte, scomparve dietro un cespuglio e per tutto il tempo si lasciò cullare da una sensazione di benessere. (Anche la gioia che dà la presenza dell’uomo amato si prova meglio in solitudine. Se quella presenza fosse ininterrotta, in fondo sarebbe presente solo nel suo incessante fuggire. Trattenere quella presenza è possibile solo nei momenti di solitudine). Uscì poi dal bosco e passò sulla strada; da lì si poteva vedere la stazione di servizio; l’autocisterna stava già allontanandosi; la macchina si accostò alla torretta rossa della pompa. La ragazza proseguì sulla strada, voltandosi solo di tanto in tanto per vedere se la macchina stesse già arrivando. Poi la vide; si fermò e cominciò a fare i gesti che usano fare gli autostoppisti alle macchine sconosciute. La macchina rallentò e si fermò accanto alla ragazza. Il giovane si piegò verso il finestrino, lo abbassò, sorrise e chiese:
«Da che parte, signorina?». «Va a Bystrica?» chiese la ragazza, sorridendogli con civetteria. «Prego, salga» disse il giovane aprendo la portiera. La ragazza si sedette e la macchina ripartì. Il giovane era sempre contento quando la sua ragazza era allegra; non accadeva tanto spesso: aveva un lavoro che le creava abbastanza problemi, un ambiente noioso, molte ore di straordinario senza possibilità di recupero, una madre malata a casa, era sempre stanca; non si distingueva nemmeno per dei nervi particolarmente saldi o per una certa sicurezza di sé, cadeva facilmente preda dell’angoscia e della paura. Per questo, il giovane sapeva accogliere con la tenera sollecitudine di un padre adottivo ogni sua manifestazione di allegria. Le sorrise: «Oggi sono fortunato. Sono cinque anni che giro in macchina, ma un’autostoppista così bella non l’avevo mai caricata». La ragazza era grata al giovane per ogni suo complimento; volle rimanere per un po’ nel calore offerto da quelle parole e disse perciò: «È proprio bravo a mentire». «Ho l’aria di un bugiardo?». «Ha l’aria di uno a cui piace mentire alle donne » disse la ragazza, e nelle sue parole apparve involontariamente un po’ della vecchia ansia, perché credeva sul serio che al giovane piacesse mentire alle donne. Un tempo, le gelosie della ragazza facevano arrabbiare il giovane, ma ora gli era facile chiudere un occhio, perché in fondo la frase non era rivolta a lui ma al guidatore sconosciuto. Si limitò quindi a una domanda banale: « E questo le dà fastidio? ». « Se io e lei stessimo insieme, mi darebbe fastidio » disse la ragazza, e si trattava di un sottile messaggio pedagogico per il giovane; il finale della frase, però, valeva soltanto per il guidatore sconosciuto: « Ma dal momento che non la conosco, non mi dà fastidio». «A una donna danno fastidio molte più cose nel proprio uomo che in uno sconosciuto» (questo, invece, era un sottile messaggio pedagogico del giovane per la ragazza). «Perciò, visto che noi siamo due sconosciuti, potremmo intenderci alla perfezione». La ragazza non volle comprendere a bella posta il sottinteso pedagogico di quelle parole, e si rivolse quindi esclusivamente al guidatore sconosciuto: «A che ci serve, se tra poco ci separeremo?». «Perché?» chiese il giovane. «Perché a Bystrica scendo». «E se scendessi con lei?». A queste parole, la ragazza gettò uno sguardo al giovane, e gli riconobbe in viso la stessa espressione con cui se l’era immaginato nelle più tormentose ore di gelosia; era terrorizzata dal modo galante con cui lui le faceva la corte, a lei (a un’autostoppista sconosciuta), e dal vedere come quella parte gli stesse bene. Perciò, con caparbia impertinenza, gli ribatté: «Mi scusi, ma lei cosa vorrebbe fare con me?». «Con una donna così bella non starei molto a pensare al da farsi» disse il giovane con galanteria, e anche questa volta parlava molto più alla propria ragazza che non al personaggio dell’autostoppista. Alla ragazza sembrò invece di averlo scoperto in quella frase galante, come se gli avesse estorto con qualche sotterfugio una confessione; sentì nei suoi confronti un rancore breve e lancinante e disse: «Non sta forse un po’ esagerando?». Il giovane guardò la ragazza; il viso caparbio di lei gli sembrò contratto; provò pena per la ragazza e desiderò ritrovare il suo sguardo di sempre (che lui definiva semplice e infantile); si chinò verso di lei, le passò un braccio dietro la spalla e pronunciò piano il nome col quale era solito chiamarla e col quale voleva adesso interrompere il gioco. Ma la ragazza si divincolò: «Mi pare che vada un po’ troppo per le spicce!». Il giovane, respinto, disse: «Mi scusi, signorina » e si mise a guardare in silenzio la strada davanti a sé. Quella gelosia malinconica lasciò però la ragazza con la stessa velocità con la quale l’aveva assalita. In fondo era una persona ragionevole e sapeva che dopotutto era solo un gioco; adesso le sembrò persino un po’ ridicolo aver respinto il suo uomo perché resa furiosa dalla gelosia; non le sarebbe piaciuto che lui l’avesse capito. Fortunatamente aveva la portentosa capacità di mutare a posteriori il senso delle sue azioni. Sfruttando questa capacità, decise che non l’aveva respinto per rabbia, ma per poter continuare quel gioco la cui capricciosità così bene si adattava al primo giorno di vacanza. Tornò quindi ad essere l’autostoppista che aveva appena respinto il guidatore sfacciato, ma solo per poter ritardare la conquista e accrescere ancora di più l’eccitazione. Si voltò leggermente verso il giovane e disse carezzevole: « Non volevo offenderla, signore ». « Mi perdoni, non la sfiorerò più » disse il giovane. Era arrabbiato con lei per non aver ascoltato e per aver rifiutato di essere se stessa quando lui lo aveva desiderato; e poiché lei insisteva con la sua maschera, il giovane trasferì la sua rabbia sull’autostoppista sconosciuta che lei stava impersonando; fu così che scoprì all’improvviso qual era la vera natura del proprio personaggio: lasciò perdere le galanterie con le quali aveva voluto lusingare indirettamente la sua ragazza, e cominciò a recitare la parte dell’uomo forte che rivolge alle donne soprattutto i lati rudi della mascolinità: volontà, sarcasmo, sicurezza di sé. Quel ruolo era l’esatto contrario dell’atteggiamento premuroso che il giovane teneva nei confronti della ragazza. È vero che prima di conoscerla si era comportato con le donne più con rudezza che con delicatezza, ma non aveva mai assomigliato all’uomo demoniacamente forte, poiché non si distingueva né per forza di volontà né per mancanza di scrupoli. Se però non aveva mai assomigliato a quel genere d’uomo, tanto più un tempo aveva desiderato assomigliargli. Un desiderio certo abbastanza ingenuo, ma che farci? I desideri infantili resistono a tutte le insidie dello spirito adulto, e spesso gli sopravvivono fino alla tarda vecchiaia. E quel desiderio infantile approfittò in fretta della possibilità di incarnarsi nel personaggio che gli veniva offerto. Per la ragazza, la sarcastica compostezza del giovane capitava molto a proposito: la liberava da se stessa. E se stessa voleva dire soprattutto la gelosia. Nell’istante in cui non vide più accanto a sé il giovane che cercava di sedurla con galanteria e vide invece il suo volto inaccessibile, la sua gelosia si placò. Poteva dimenticare se stessa e abbandonarsi al suo personaggio. Il suo personaggio? Quale? Era un personaggio attinto dalla cattiva letteratura. L’autostoppista aveva fermato la macchina non per farsi dare un passaggio, ma per sedurre l’uomo che viaggiava nell’auto; era una scaltra seduttrice che sapeva utilizzare a meraviglia le proprie grazie. La ragazza era entrata in quella stupida figuretta da romanzo con una leggerezza della quale lei stessa era allo stesso tempo sorpresa e incantata. E così viaggiavano chiacchierando; un guidatore sconosciuto e una sconosciuta autostoppista. 5 Ciò di cui il giovane più sentiva la mancanza dentro di sé era la spensieratezza. La strada della sua vita era tracciata con un rigore implacabile: il lavoro non si esauriva solo con le otto ore giornaliere ma, attraverso la noia obbligatoria delle riunioni e lo studio a casa, si infiltrava anche nel tempo restante e, attraverso l’attenzione degli innumerevoli colleghi e colleghe, si infiltrava fin nella sua vita privata così povera di tempo, e le toglieva ogni segretezza, perché già più volte lui era stato oggetto di pettegolezzi e di pubbliche discussioni. Nemmeno le due settimane di vacanza gli avevano dato un senso di liberazione e di avventura; anche lì si stendeva la grigia ombra di una rigorosa pianificazione; la penuria di alloggi per l’estate, di cui soffre il nostro paese, lo aveva costretto a fissare una camera sui monti Tatra già sei mesi prima, e per farlo aveva avuto bisogno di una lettera di raccomandazione del consiglio d’azienda della propria ditta, la cui anima onnipresente non aveva quindi cessato di interessarsi a lui nemmeno un istante. A tutto ciò si era rassegnato, ma di tanto in tanto lo assaliva ugualmente l’immagine terribile di una strada sulla quale sfrecciava sotto gli occhi di tutti e da dove non poteva deviare. Quell’immagine gli apparve anche adesso; per uno strano cortocircuito, la strada immaginaria si identificò con la strada reale sulla quale viaggiava… e ciò lo spinse a un’improvvisa follia. « Dove ha detto che vuole andare? » chiese alla ragazza. « A Banská Bystrica » rispose. « E che ci va a fare? ». « Ho un appuntamento ». « Con chi? ». « Con un signore ». La macchina stava avvicinandosi ad un grosso incrocio; il guidatore rallentò per poter leggere i cartelli che indicavano le direzioni; poi deviò a destra. « Che succede se non si presenta all’appuntamento? ». « Lo avrebbe lei sulla coscienza e dovrebbe prendersi cura di me ». « Si sarà certo accorta che ho deviato per Nové Zámky ». « Davvero? È impazzito! ». « Non abbia paura, mi prenderò cura di lei » disse il giovane. Di colpo il livello del gioco si era innalzato. L’automobile non si allontanava più soltanto dalla meta immaginaria di Banská Bystrica, ma anche dalla meta reale verso la quale erano partiti al mattino: i monti Tatra e la camera che il giovane aveva prenotato. La vita recitata aveva all’improvviso mosso all’attacco della vita non recitata. Il giovane si stava allontanando da se stesso e insieme dal suo cammino rigorosamente tracciato dal quale fino ad allora non aveva mai deviato. « Ma aveva detto che stava andando verso i Bassi Tatra! » si stupì la ragazza. « Signorina, vado dove mi pare. Sono un uomo libero e faccio quello che voglio e quello che mi piace ».
Quando arrivarono a Nové Zámky cominciava già a imbrunire. Il giovane non era mai stato lì e gli ci volle un po’ di tempo per riuscire a orientarsi. Fermò più volte la macchina per chiedere ai passanti dove fosse un albergo. C’erano molte strade dissestate, per cui il tragitto fino all’albergo – anche se questo (come sostenevano tutti gli interrogati) era abbastanza vicino – si perdeva in una miriade tale di giravolte e deviazioni che i due impiegarono un buon quarto d’ora per arrivarci. Era un albergo brutto a vedersi, ma era l’unico in città e il giovane non aveva più alcuna voglia di proseguire. Disse quindi alla ragazza: « Mi aspetti! » e scese dall’auto. Una volta sceso, ritornò naturalmente di nuovo se stesso. E gli dispiacque di trovarsi di sera in un luogo del tutto diverso da quello a cui aveva pensato; e tanto più gli dispiaceva perché non vi era stato costretto da nessuno e in fondo non l’aveva nemmeno voluto lui. Si rimproverò quella follia, ma poi fece un gesto con la mano: la camera sui monti Tatra aspetterà fino a domani e non farà certo male festeggiare il primo giorno di vacanza con qualcosa di imprevisto. Attraversò il ristorante – pieno di fumo, pieno di gente, chiassoso – e chiese della réception. Lo indirizzarono sul fondo, verso le scale dove, sotto un pannello pieno di chiavi, stava seduta una bionda non più giovane; dovette faticare per ottenere la chiave dell’unica camera libera. Anche la ragazza, una volta rimasta sola, aveva abbandonato il suo personaggio. Ma non le dispiaceva trovarsi in una città imprevista. Era così devota al giovane che non dubitava mai di ciò che lui faceva, e gli affidava con fiducia le ore della propria vita. In compenso, le affiorò nuovamente l’idea che forse anche altre donne che lui aveva incontrato nei suoi viaggi di lavoro lo avevano aspettato in macchina allo stesso modo. Stranamente, però, questa idea ora non la faceva affatto soffrire; anzi, sorrise contenta al pensiero di essere lei ora quella sconosciuta; una sconosciuta,irresponsabile e poco seria, una di quelle donne di cui era stata tanto gelosa; le sembrò che in quel modo le avrebbe messe tutte quante nel sacco; le sembrò di aver trovato il sistema per impadronirsi delle loro armi; per dare al giovane ciò che fino ad allora non era riuscita a dargli: la leggerezza, l’impudicizia e la licenziosità; provò una soddisfazione particolare al pensiero che lei sola era l’unica ad avere la capacità di essere tutte le donne e di potere così (lei sola, l’unica) attrarre e assorbire interamente l’uomo che amava. Il giovane aprì la portiera dell’auto e condusse la ragazza al ristorante. Nel chiasso, nella sporcizia e nel fumo scoprì un unico tavolino libero in un angolo. 7 « E allora, come si prenderà cura di me adesso? » chiese la ragazza con aria provocante. « Che aperitivo vuole? ». La ragazza non era abituata agli alcolici; al massimo beveva del vino e le piaceva il vermut. Ora però disse apposta: « Una vodka ». « Ottimo » disse il giovane. « Spero che non mi si ubriacherà ». « E se anche fosse? » disse la ragazza. Il giovane non rispose, chiamò il cameriere e ordinò due vodke e bistecche per cena. Dopo un po’ il cameriere portò un vassoio con due bicchierini e li poggiò davanti a loro. Lui sollevò il bicchierino e disse: « Alla sua! ». « Non le viene in mente nulla di più spiritoso? ». Qualcosa, nel gioco della ragazza, cominciava a irritarlo; adesso che le sedeva di fronte, capì che non erano soltanto le parole a fare di lei un’estranea, ma che lei era interamente trasformata, nei gesti e nella mimica, e somigliava, con una sgradevole fedeltà, al tipo di donna che lui conosceva così bene e verso il quale provava una leggera ripugnanza. Per cui (con il bicchierino nella mano sollevata) corresse il proprio brindisi: « D’accordo, non berrò a lei, ma alla sua specie nella quale si fonde con tanto successo il meglio dell’animale e il peggio dell’uomo ». « Con specie intende riferirsi a tutte le donne? » chiese la ragazza. « No, penso solo a quelle che le somigliano ». « Non mi pare lo stesso molto divertente paragonare una donna a un animale ». « Bene, » il giovane continuava a tenere il bicchierino sollevato « non berrò allora alla sua specie, ma alla sua anima; è d’accordo? Alla sua anima che si accende quando scende dalla testa nel ventre e si spegne quando sale nuovamente alla testa ». La ragazza sollevò il bicchierino: « Va bene, allora alla mia anima che scende nel ventre ». « Mi correggo ancora una volta, » disse il giovane « meglio brindare al suo ventre nel quale scende la sua anima ». « Al mio ventre » disse la ragazza, e il suo ventre (adesso che lei l’aveva nominato così apertamente) sembrò quasi rispondere alla chiamata: la ragazza sentiva dentro di sé ogni millimetro della sua pelle. Poi il cameriere portò le bistecche e il giovane ordinò un’altra vodka con del seltz (questa volta bevvero ai seni della ragazza), e intanto la conversazione proseguiva in uno strano tono frivolo. Il giovane era sempre più irritato dal modo in cui la ragazza sapeva fare la ragazza sfacciata; se sa farlo così bene, pensava tra sé, significa che lo è davvero; non è certo entrata in lei un’anima estranea venuta da chissà dove; quella che lei sta recitando è se stessa; forse è quella parte del suo essere altre volte tenuta sotto chiave e che adesso il pretesto del gioco ha liberato dalla gabbia; forse lei pensa con quel gioco di negare se stessa; ma non accade invece proprio il contrario? il gioco non la fa diventare se stessa? non la libera? no, di fronte a lui non siede un’estranea nel corpo della sua ragazza; è proprio la sua ragazza, solo lei, nessun altro. La guardava e sentiva nei suoi confronti un crescente disgusto. Non era però soltanto disgusto. Quanto più la ragazza si allontanava da lui mentalmente, tanto più egli la desiderava fisicamente; l’estraneità dell’anima rendeva singolare il suo corpo di ragazza; o meglio, era proprio quell’estraneità a renderlo per la prima volta un corpo; come se fino ad allora quel corpo per lui fosse esistito solo nelle nubi della compassione, della tenerezza, della sollecitudine, dell’amore e dell’emozione; come se fosse stato perduto in quelle nubi (sì, come se il corpo fosse stato perduto!). Al giovane sembrava di vedere quel giorno, per la prima volta, il corpo della ragazza. Dopo la terza vodka e soda, la ragazza si alzò e disse con aria civettuola: « Mi scusi ». Il giovane disse: « Le posso chiedere, signorina, dove sta andando? ». « A pisciare, se permette » rispose la ragazza, e si allontanò fra i tavoli in direzione del paravento felpato. 8 Era soddisfatta di come aveva sbalordito il giovane con una parola che – pur con tutta la sua innocenza – lui non le aveva mai sentito pronunciare; nulla le sembrava più in carattere con la donna che stava recitando dell’accento civettuolo posto su quella parola; sì, era soddisfatta, era di ottimo umore; quel gioco l’entusiasmava; le faceva provare qualcosa che fino ad allora non aveva mai provato: qualcosa come la sensazione di una spensierata irresponsabilità. Lei che aveva sempre avuto paura di ogni passo che stava per fare, all’improvviso si sentiva del tutto sbloccata. Quella vita estranea in cui si era venuta a trovare era una vita senza pudore, senza determinazioni biografiche, senza passato e senza futuro, senza impegni; era una vita straordinariamente libera. Essendo un’autostoppista, la ragazza era autorizzata a fare tutto: tutto le era permesso; dire qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa, provare qualsiasi cosa. Attraversò la sala consapevole di essere osservata da tutti i tavoli; anche questa era una sensazione nuova che lei non conosceva: gioia indecente di avere un corpo. Fino ad allora non era riuscita, dentro di sé, a liberarsi interamente della quattordicenne che si vergognava dei propri seni e provava un senso di spiacevole indecenza al pensiero che sporgevano visibilmente dal corpo. Era sì orgogliosa di essere bella e ben fatta, ma quel suo orgoglio era sempre immediatamente corretto dal pudore: capiva che la bellezza femminile funziona soprattutto come richiamo sessuale, e ciò le dava una sensazione poco piacevole; desiderava che il proprio corpo si rivolgesse soltanto all’uomo che amava; quando, in strada, gli uomini le gettavano occhiate al seno, le sembrava che in quel modo devastassero anche una parte della sua più segreta intimità, che apparteneva solo a lei e all’uomo amato. Adesso però era un’autostoppista, una donna senza destino; era sciolta dal tenero legame del suo amore e cominciava a prendere intensamente coscienza del proprio corpo; lo sentiva con tanta più eccitazione quanto più erano estranei gli occhi che lo osservavano. Mentre passava accanto all’ultimo tavolo, un tale un po’ alticcio, volendo mettersi in mostra come uomo di mondo, le si rivolse in francese: « Combien, mademoiselle? ». La ragazza capì. Si drizzò tutta, gustando ogni movimento delle sue anche; sparì dietro al paravento. 9 Era tutto uno strano gioco. La stranezza era ad esempio nel fatto che il giovane, pur immedesimandosi a meraviglia nella parte del guidatore sconosciuto, non cessava di vedere nell’autostoppista la sua ragazza. Ed era proprio questo a tormentarlo; vedeva la sua ragazza intenta a sedurre uno sconosciuto, e aveva l’amaro privilegio di essere lì presente; di vedere da vicino come lei si comportava e cosa diceva quando lo tradiva (quando lo aveva tradito, quando lo avrebbe tradito); aveva il paradossale onore di essere lui stesso l’oggetto della sua infedeltà. La cosa peggiore era che, più che amarla, l’adorava; gli era sempre sembrato che l’essere di lei fosse reale solo entro i confini della fedeltà e della purezza, e che al di là di quei confini lei semplicemente non esistesse; al di là di quei confini lei avrebbe cessato di essere se stessa, come l’acqua cessa di essere acqua superato il confine del punto di ebollizione. Adesso che la vedeva superare con naturale eleganza quello spaventevole confine, lo invase la rabbia. La ragazza tornò dal gabinetto lamentandosi: « Un tipo laggiù mi ha detto: Combien, mademoiselle? ». « Non se ne meravigli, » disse il giovane « in fondo sembra una puttana ». « Lo sa che non me ne importa proprio nulla? ». « Sarebbe dovuta andare con quel signore ». « In fondo ho qui lei ». « Può andare con lui dopo di me. Si metta d’accordo ». « Non mi piace ». « Non avrà certo obiezioni di principio ad avere più uomini in una stessa notte ». « Perché no, se sono belli ». « Li preferisce a uno a uno o tutti insieme? ». « Sia in un modo che nell’altro » disse la ragazza. 9 La conversazione stava diventando sempre più assurda; la ragazza ne era un po’ sconvolta ma non poteva protestare. Anche nel gioco è in agguato, per l’uomo, l’obbligo, anche il gioco è una trappola per il giocatore; se non si fosse trattato di un gioco e lì ci fossero stati seduti davvero due estranei, già da molto l’autostoppista avrebbe potuto offendersi e andarsene; ma dal gioco non c’è fuga; una squadra non può fuggire dal campo prima della fine della partita, i pezzi degli scacchi non possono abbandonare la scacchiera, i confini di un campo di gioco sono insuperabili. La ragazza sapeva di dover accettare qualsiasi cosa proprio perché si trattava di un gioco. Sapeva che quanto più il gioco si fosse spinto in là, tanto più sarebbe stato un gioco, e lei con tanta più docilità avrebbe dovuto accettarlo. Ed era inutile chiamare in aiuto la ragione e far notare a quella sconsiderata dell’anima che doveva mantenere una certa distanza dal gioco, senza prenderlo sul serio. Proprio perché era solo un gioco, l’anima non aveva timore, non si difendeva e vi si abbandonava narcotizzata. Il giovane chiamò il cameriere e pagò. Poi si alzò e disse alla ragazza: « Possiamo andare ». « E dove? » chiese la ragazza fingendo stupore. « Non fare domande e spicciati » disse il giovane. « In che modo mi parla? ». « Come a una puttana » disse il giovane. 10 Salirono per una scala male illuminata: sul pianerottolo tra il piano terra e il primo piano, accanto al gabinetto c’era un gruppo di uomini un po’ brilli. Il giovane fece passare un braccio attorno al corpo della ragazza, così da poterle tenere una mano sul seno. Gli uomini davanti al gabinetto lo videro e cominciarono a schiamazzare. La ragazza voleva divincolarsi, ma il giovane le ordinò: « Ferma! ». Gli uomini approvarono con volgare solidarietà e rivolsero alla ragazza alcuni messaggi osceni. Insieme con la ragazza il giovane raggiunse il primo piano e aprì la porta della camera. Accese la luce. Era una camera stretta, con due letti, un tavolino, una sedia e il lavandino. Il giovane chiuse a chiave la porta e si voltò verso la ragazza. Lei gli stava di fronte in una posa piena di sfida e con una sensualità sfacciata negli occhi. Il giovane la guardava e cercava di scoprire, dietro quell’espressione lasciva, i tratti conosciuti che lui amava. Era come guardare due immagini in un unico binocolo, due immagini sovrapposte e visibili in trasparenza, l’una attraverso l’altra. Quelle due immagini in trasparenza gli dicevano che nella ragazza c’era di tutto, che la sua anima era terribilmente amorfa, che in essa c’era posto per la fedeltà e l’infedeltà, il tradimento e l’innocenza, la civetteria e il pudore; quel selvaggio miscuglio gli sembrava nauseabondo come la mescolanza di colori di un mondezzaio. Le due immagini continuavano a mostrarsi in trasparenza l’una sull’altra, e il giovane capì che la differenza tra la ragazza e le altre donne era solo superficiale, mentre nelle sue vaste profondità interiori essa era uguale a loro, con tutti i pensieri, i sentimenti e i vizi che davano ragione ai suoi dubbi segreti e alle sue gelosie; capì che l’impressione di un contorno che la delimitava come individuo non era che un inganno in cui cadeva l’altro, colui che guardava, lui. Gli sembrò che la ragazza che lui amava fosse solo una creazione del suo desiderio, della sua astrazione, della sua fiducia, mentre quella vera gli stava ora davanti, irrimediabilmente altra, irrimediabilmente estranea, irrimediabilmente molteplice. La odiava. « Che aspetti? Spogliati » disse. La ragazza inclinò la testa con aria civettuola: « È proprio necessario? ». 10 Il tono usato gli sembrava familiare, gli sembrava che qualcosa del genere gliel’avesse detta tanto tempo fa un’altra donna, ma non sapeva più chi. Desiderava umiliarla. Non l’autostoppista, ma lei, la sua ragazza. Il gioco si confondeva con la vita. Il gioco col quale voleva umiliare l’autostoppista era diventato ormai un pretesto per umiliare la ragazza. Il giovane dimenticò che stava giocando. Odiava semplicemente la donna che gli stava davanti. Fissandola, tolse dal portafoglio una banconota da cinquanta corone. Gliela tese: « Basta? ». La ragazza prese le cinquanta corone: « Non mi considera poi tanto ». Il giovane disse: « Non vali di più ». La ragazza si strinse al giovane: « Non puoi fare così con me! Con me devi essere un pochino diverso, devi fare uno sforzo ». Lo abbracciò tendendo la labbra verso le sue. Lui le poggiò le dita sulla bocca e l’allontanò delicatamente. Disse: « Bacio solo le donne che amo ». « E me, non mi ami? ». « No ». « Chi è che ami? ». « Non sono fatti tuoi. Spogliati! ». 11 Non si era mai svestita in quel modo. La timidezza, quella sensazione di panico interiore, l’ebbrezza, tutto ciò che provava di solito quando si svestiva davanti al giovane (senza potersi nascondere nell’oscurità), tutto ciò era scomparso. Stava lì davanti a lui sicura di sé, sfrontata, in piena luce, e curiosa di sapere da dove le venissero tutt’a un tratto i gesti, fino ad allora sconosciuti, con i quali si spogliava ora, lenta ed eccitante. Sentiva i suoi sguardi, si toglieva leziosamente ciascun capo di vestiario e assaporava i singoli stadi della denudazione. Poi, però, rimase di colpo completamente nuda davanti a lui, pensò che ormai il gioco era finito; che abbandonando i vestiti, aveva abbandonato anche la simulazione e adesso era nuda, adesso era se stessa, e il giovane adesso le si sarebbe dovuto avvicinare per compiere quel gesto che avrebbe annullato ogni cosa, un gesto al di là del quale ci sarebbero state solo le loro più intime tenerezze. Nuda davanti al giovane, di colpo smise di giocare; si scoprì in imbarazzo e sul suo viso apparve un sorriso che apparteneva davvero soltanto a lei: timido e confuso. Solo che il giovane non le si avvicinò e non annullò il gioco. Non scorse il sorriso intimamente noto; davanti a sé vedeva soltanto il bel corpo estraneo della propria ragazza, una ragazza che odiava. L’odio aveva ripulito la sua sensualità da ogni residuo di sentimento. La ragazza voleva avvicinarglisi, ma lui le disse: « Sta’ ferma dove sei, voglio vederti per bene ». Adesso desiderava soltanto trattarla come una puttana a pagamento. Solo che il giovane non era mai stato con puttane a pagamento, e la loro immagine gli era mediata solo dalla letteratura e da quello che aveva sentito raccontare. Si rivolse quindi a quelle immagini e la prima che vide fu una donna con la biancheria intima nera (e le calze nere) che ballava sul coperchio lucido di un pianoforte. Nella cameretta d’albergo non c’era pianoforte, c’era solo un tavolino appoggiato alla parete, non grande, coperto da una tovaglia di lino. Ordinò alla ragazza di salirci sopra. La ragazza fece un gesto supplichevole, ma il giovane disse: « Sei stata pagata ». Quando la ragazza riconobbe nello sguardo quell’inflessibile invasamento, si sforzò di continuare il gioco anche se ormai non poteva e non sapeva più farlo. Con le lacrime agli occhi salì sul tavolo. Il ripiano era grande al massimo un metro per un metro, e una gamba era un po’ più corta delle altre; in piedi sul tavolo, la ragazza provava un senso di instabilità. Il giovane era però soddisfatto della figura nuda che adesso si ergeva sopra di lui e la cui pudica esitazione non faceva che eccitare il suo dispotismo. Voleva vedere quel corpo in tutte le posizioni e da ogni lato, così come si immaginava che l’avessero visto e l’avrebbero visto anche altri uomini. Fu volgare e lascivo. Le diceva parole che la ragazza non gli aveva mai sentito pronunciare in vita sua. Lei voleva ribellarsi, voleva fuggire da quel gioco, lo chiamò per nome, ma lui le ordinò immediatamente di star zitta perché non aveva il diritto di rivolgerglisi con tanta familiarità. E così, alla fine, confusa e in preda a un pianto interiore, lei gli ubbidì, si chinò in avanti e si accovacciò secondo i desideri del giovane, fece il saluto militare e di nuovo agitò i fianchi in un twist; fu allora che un movimento un po’ più brusco le fece scivolare la tovaglia da sotto il piede e per poco non cadde. Il giovane la prese e la trascinò sul letto. Si accoppiò con lei. La ragazza era contenta al pensiero che almeno adesso quel gioco infelice sarebbe finalmente terminato e loro due sarebbero tornati nuovamente così com’erano, col loro amore. Accennò a sfiorarlo con le labbra. Ma il giovane le allontanò la testa e ripeté che baciava solo le donne che amava. Lei scoppiò in un pianto dirotto. Ma nemmeno il pianto le fu concesso, perché la rabbiosa passione del giovane stava conquistando a poco a poco anche il suo corpo, e il corpo fece poi tacere il lamento della sua anima. In breve sul letto ci furono, uno di fronte all’altro, due corpi perfettamente fusi, sensuali ed estranei uno all’altro. Quello che ora accadeva era proprio ciò che la ragazza per tutta la vita aveva maggiormente temuto ed evitato con angoscia: fare l’amore senza sentimenti e senza amore. Sapeva di aver superato il confine proibito, oltre il quale ormai si muoveva senza più alcuna riserva e con una partecipazione totale; c’era solo da qualche parte, lontano, in un angolo della sua coscienza, il terrore per non aver mai provato tale e tanto piacere come questa volta… al di là di quel confine. 12 Poi tutto finì. Il giovane si tirò su dalla ragazza e allungò la mano verso il lungo filo che pendeva sul letto; spense la luce. Non voleva vedere il viso della ragazza. Sapeva che il gioco era finito, ma non aveva voglia di tornare all’abituale rapporto con lei; aveva paura di quel ritorno. Adesso stava disteso al buio accanto alla ragazza, disteso in modo che i loro corpi non si toccassero. Dopo un po’ udì un singhiozzare sommesso; timidamente la mano della ragazza sfiorò con un gesto infantile la sua mano: la sfiorò, si ritrasse, la sfiorò ancora, e poi si sentì una voce supplichevole e singhiozzante che lo chiamava col nome della loro intimità e gli diceva: « Io sono io, io sono io…». Il giovane taceva, immobile, rendendosi conto della triste vacuità dell’affermazione della ragazza, che definiva una cosa ignota per mezzo della stessa cosa ignota. E presto la ragazza passò dai singhiozzi a un pianto dirotto, ripetendo ancora innumerevoli volte quella patetica tautologia: « Io sono io, io sono io, io sono io… ». Il giovane cominciò a chiamare in aiuto la compassione (dovette richiamarla da lontano, perché lì vicino non c’era) per riuscire a calmare la ragazza. Avevano davanti ancora tredici giorni di vacanza.
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